Di Ernst Lubitsch Woody Allen diceva: «Il cosiddetto tocco Lubitsch ha condizionato il cinema brillante per decenni e ha condizionato me. Ma non sarò mai come lui». Detto da uno come Allen è un endorsement non banale.
A inserire Ernest nell’ambiente è Max Reinhardt, gran guru del cinema tedesco. E così il giovane diventa attore in piccole parti e aiuto regista in film di non eccelsa qualità. Ma qualcuno a Hollywood lo ha notato, una che conta, molto. Trattasi di Mary Pickford, moglie del superdivo Douglas Fairbainks. La coppia, insieme a Chaplin e Griffith, altri giganti, ha fondato la United Artists. Gran colpo di fortuna per Ernst, che comincia a essere “Lubitsch”. È il 1923 e dunque il regista ha preceduto di dieci anni quella migrazione di magnifici talenti che lasciarono la Germania con l’avvento di Hitler. Alcuni nomi: Wilder, Lang, Zinneman, Preminger, Siodmak. Erano tutti figli di quella cultura di Weimar che aveva rifondato le arti ai primi del Novecento, e dato vita alla dominante scuola dell’espressionismo che aveva reinventato il cinema. Dunque quella base di cultura profonda che si fondeva col senso spettacolare del codice hollywoodiano avrebbe dato prodotto una serie di capolavori assoluti. Hollywood accolse Lubitsch con stima e passione, perché lo aveva capito e gli attribuiva una grande qualità preconcetta. Era la premessa per i capolavori che poi il regista firmò, da Partita a quattro, La vedova allegra, Ninotchka, Scrivimi fermo posta, Il cielo può attendere, Vogliamo vivere. Tutti titoli che fanno parte della storia nobile del cinema.
Fonte testo: Maremosso
Fonte immagine: copertina del volume Ernst Lubitsch di Francesco Bono, Officina 1992